Il testo critico di Stefano Perrini realizzato per la collettiva “Parole dipinte, immagini scritte. Opere dagli anni Sessanta ad oggi” racconta l’evoluzione di questo particolare linguaggio artistico.
Poesia Visiva. Sotto questa locuzione si è soliti riconoscere le esperienze artistiche verbo-visuali che si sono sviluppate a partire dagli anni sessanta del Novecento. Si tratta di una semplificazione di uno spazio di ricerca artistica ampio e complesso che i puristi caratterizzerebbero con ben altra, specifica tassonomia (Poesia Concreta, Lettrismo, Poesia Sonora, Poesia Tecnologica – solo per citare alcune tendenze). È indubbio che questi termini restituiscano immediatamente l’idea sottesa a questo genere di espressione: il tentativo di coniugare la parola poetica con le immagini delle arti visive. Tuttavia, a ben vedere, si è di fronte ad una specie di ossimoro: la poesia è fatta di parole e di suoni; la sua nascita precede addirittura la scrittura ed è dunque una forma d’arte fatta per l’ascolto, forse più vicina alla musica che non alla pittura o alla scultura. Eppure questa apparente dicotomia incomincia ad essere messa in discussione già nel 1897, con l’opera che si può senz’altro considerare come l’origine della Poesia Visiva e di tutte le ricerche consimili: Un coup de dés jamais n’abolira le hasard di Stéphane Mallarmé (1842 – 1898). In questa composizione, il grande poeta simbolista si occupa della distribuzione delle parole sulla pagina, degli spazi da lasciare vuoti, della scelta dei caratteri tipografici e del loro spessore; in sintesi, l’aspetto visivo della poesia, cioé il modo di presentarsi sulla pagina, assume un’importanza senza precedenti. Nella raccolta di aforismi Einbahnstraße (Strada a senso unico) pubblicata nel 1928, il filosofo tedesco Walter Benjamin (1892 – 1940), tra i fondatori del pensiero estetico del Novecento, afferma come Mallarmé sia stato il primo a prefigurare quello che sarebbe successo alla parola scritta ed al libro nella sua forma tradizionale:
“Mallarmé […] nel Coup de dés ha per la prima volta acquisito alla pagina a stampa le tensioni grafiche della réclame”.1
Più avanti nel testo, Benjamin osserva come i bambini siano ormai esposti ai colorati testi pubblicitari ben prima di poter aver accesso ad un libro; il filosofo pensa che i nuovi poeti riscatteranno la scrittura imparando a padroneggiare questi nuovi ambiti visuali: “[…] verrà il momento in cui la quantità si tradurrà in qualità e la scrittura, che sempre più si addentra nel campo grafico della sua nuova ricchezza d’immagini, conquisterà di colpo contenuti adeguati”.2
Benjamin impartisce dunque un mandato a tutta la generazione di poeti visivi, partendo da una riflessione fondamentale: nella società massmediatica non è possibile una separazione netta tra la parola e l’immagine. Se menti illuminate hanno incominciato ad osservare questo fenomeno di contaminazione reciproca già tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, negli anni sessanta del secolo scorso, al termine del boom economico conseguente alla ricostruzione postbellica, esso diventa uno degli spunti centrali della ricerca artistica occidentale. Gli esponenti della Pittura Visiva si appropriano delle strategie e degli slogan dei nuovi media e della pubblicità per dare vita ad un linguaggio poetico contemporaneo che, nell’unione di parole ed immagini, possa rinnovare e superare il linguaggio letterario tradizionale.
Un altro primato è stato riconosciuto a Mallarmé dal filosofo Roland Barthes (1915 – 1980), secondo il quale il poeta francese è stato il primo a sostituire all’autore il linguaggio, che deve poter parlare di per sé. La soppressione dell’autore che come un dio detiene il controllo assoluto del significato dell’opera lascia spazio all’interpretazione del fruitore attivo. Questa possibilità è senz’altro data allo spettatore delle opere della Poesia Visiva, che si presentano davvero “aperte”, per usare un termine che proprio dal 1962 grazie ad Umberto Eco (1932 – 2016) stava entrando nel dibattito culturale. Nel porsi di fronte alle opere della Poesia Visiva non si avverte mai la sensazione di ricevere passivamente quanto l’artista ha deciso di imporre; perfino le opere che sembrano contenere dei messaggi molto espliciti necessitano di uno sforzo attivo da parte di chi le legge/guarda; in assenza di una volontà di controllo da parte dell’artista, i livelli ed i significati svelati dal pubblico risultano, di conseguenza, tutti perfettamente leciti. E la pratica del poeta visivo, con una predilezione per il collage, assomiglia molto a quanto teorizzato da Barthes sulla morte dell’autore: non più il genio creatore, ma un organizzatore in nuove forme e combinazioni di materiali preesistenti.
Ma l’operazione di Mallarmé con Un coup de dés introduce un altro elemento che merita di essere menzionato: la non linearità della lettura. Potrà apparire cosa banale nell’epoca dei millenials, avvezzi alla navigazione in rete ed alla lettura di ipertesti, ma Mallarmé svincola il lettore dal dovere di scorrere il testo una linea alla volta, dall’estrema sinistra all’estrema destra.
La non linearità è una caratteristica delle opere della Poesia Visiva, che richiedono un’indagine da parte dell’osservatore che non può seguire una direzione univoca e determinata, ma necessariamente deve farsi a scarti, passando attraverso vari livelli di visione, lettura e comprensione, in una modalità che assomiglia da vicino alla cyber-navigazione della contemporaneità.

Fin qui si è visto come Mallarmé sia la pietra angolare delle ricerche verbo-visuali del Novecento; egli resta, tuttavia, un poeta che scrive poesie. Occorre dunque fare ancora il passaggio dalle arti letterarie a quelle visuali. Non avendo alcuna pretesa di esaustività scientifica, sia consentito allora saltare alcune esperienze fortemente influenzate dal poeta simbolista francese e già sufficientemente analizzate in molteplici contesti (Futurismo, Dadaismo e Surrealismo, giusto per citare le più ovvie) per approdare al caso paradigmatico del belga Marcel Broodthaers (1924 – 1976), uno dei massimi artisti del secolo scorso. Broodthaers era stato un poeta sin dall’adolescenza ed aveva pubblicato quattro raccolte di poesie tra il 1957 ed il 1964. Nel fatidico anno 1964, egli decide di cominciare a produrre opere d’arte e, a partire da quel momento, non pubblicherà più nuove liriche. La sua decisione è circostanziata non sulla base di una nobile vocazione o da qualche specifico talento nelle arti grafiche, ma dalla consapevolezza della natura pecuniaria dei rapporti che regolano il mercato dell’arte. Abbandona la vocazione per la poesia a quarant’anni, perché il poeta è un buono a nulla, mentre la produzione di opere d’arte e la loro conseguente commercializzazione sono attività che garantiscono all’artista una percentuale in danaro. Tutto questo è spiegato con molta ironia nell’invito alla sua prima mostra personale tenutasi a Bruxelles, che è costruito con i modi tipici della pubblicità e costituisce esso stesso un’opera d’arte. Non si può non notare qui quanto ha osservato forse con una certa amarezza Sarenco (1945 – 2017) a proposito del diverso trattamento che il mercato ha riservato ai poeti delle avanguardie storiche rispetto ai colleghi pittori:
“Marinetti non costa niente, mentre Balla e Boccioni costano milioni di euro. Breton non costa niente, mentre Magritte e compagni surrealisti costano milioni di euro”.3
In un’intervista del 1974, Broodthaers aggiunge qualche notazione in più su questo passaggio dalla produzione letteraria a quella artistica, sottolineando come la poesia si rivolga ad un pubblico fittizio, che l’autore nel proprio isolamento può solo immaginare ma che gli rimane per la maggior parte invisibile. Per l’artista visuale, ecco che il pubblico diventa reale, visibile ed abita spazi concreti come musei e gallerie. Tale aspetto va considerato con attenzione anche per la Poesia Visiva; se la lettura di una pagina scritta è per propria natura essenzialmente una questione privata, l’apertura alle arti visuali comporta un consumo pubblico, spesso collettivo e sociale. La prima opera che Broodthaers espone è costituita da cinquanta copie della sua ultima raccolta di poesie, Pense-Bête, trasformati in una scultura dal loro incastro in una base in gesso; le poesie non possono essere più lette ed i libri perdono la loro funzione, a meno di distruggere la base in gesso e l’opera stessa intesa come scultura. L’artista sembra dunque ribadire che la poesia e l’opera d’arte diventano una cosa sola, ma da esperire con mezzi non abituali: le poesie contenute in quei libri non possono più essere lette normalmente perché l’accesso è impossibilitato, ma, d’altra parte, attraverso lo stimolo della curiosità ed il desiderio di conoscerle, la loro fruizione può avvenire con gli strumenti dell’immaginazione. L’atto di sigillare col gesso delle opere poetiche ha prodotto, paradossalmente, una nuova opera d’arte “aperta”.
Nel 1969 Broodthaers chiude in qualche modo il cerchio con la mostra Exposition littéraire autour de Mallarmé, che si tiene ad Anversa. In essa, l’artista trasferisce il poema di Mallarmé su supporti diversi, mettendo in discussione i concetti di medium, tecnologia ed autorialità. Particolarmente interessanti la versione in formato libro con fogli trasparenti e quella realizzata in placche di alluminio anodizzato; in entrambi i casi, alle parole scritte dal poeta sono sostituite delle barre nere che corrispondono esattamente per dimensione e collocazione spaziale all’organizzazione delle parole del poema originario, che assume così in maniera definitiva una propria pura immagine, totalmente astratta, che nel caso della versione in alluminio si arricchisce perfino di una materialità quasi scultorea. Una pratica simile al modo di operare di Emilio Isgrò (1937).

Poste le basi per un discorso sulla Poesia Visiva, si deve ora notare come nel ricco panorama internazionale delle ricerche verbo-visuali sorte alla fine degli anni cinquanta del Novecento, l’Italia abbia occupato una posizione preminente, esercitata attraverso la nascita di svariati gruppi operanti in diverse realtà metropolitane.
Senza voler far torti, i principali centri di sviluppo di quest’avanguardia sono stati Genova, Torino, Brescia Reggio Emilia, Bologna, Roma, Napoli e, soprattutto, Milano e Firenze. Firenze, in particolare, con la formazione del Gruppo 70 tra 1963 e 1964 diventa la città di riferimento per quest’avanguardia; fatto del tutto straordinario per un luogo che nel Novecento, proprio a causa dell’immenso retaggio artistico e culturale, ha sempre avuto grosse difficoltà a porsi in posizione d’avanguardia. Ad essere filologicamente rigorosi, è al gruppo fiorentino che dovrebbe riferirsi in via esclusiva l’espressione Poesia Visiva, che oramai è usata per comprendere tutto il fenomeno, senza troppe distinzioni.
Non è difficile capire le ragioni che hanno reso l’Italia di quegli anni terreno fertile per questo tipo di avanguardia. In Italia, dopo la seconda guerra mondiale è stato realizzato il cosiddetto boom economico legato alla ricostruzione del Paese; fondamentalmente questo ha significato il passaggio da un’economia agricola e rurale ad un’economia industriale. Il consumismo in Italia è nato, come conseguenza, proprio in questi anni. Ed il linguaggio è cambiato insieme alla società; se da un lato il gergo agricolo non è più utile e va sostituito con quello nuovo che si impara in fabbrica, dall’altro il processo di unificazione linguistica riceve grande spinta dall’introduzione della televisione nel 1954 e dalla riforma della scuola media del 1962 che rafforza il sistema dell’obbligo scolastico. Come risultato di tutto ciò, l’italiano che si parla in questi anni differisce profondamente dalla lingua parlata dalle generazioni precedenti. Su questo contesto si innestano i mezzi di comunicazione di massa (radio, cinema, televisione, pubblicità, rotocalchi, fumetti, ecc.), che veicolano messaggi chiusi, volti alla creazione di consenso ed all’instaurazione di nuovi miti e nuovi riti. Il pubblico, all’opposto di quanto succede con il concetto di opera d’arte “aperta”, diventa “target”, cioé il bersaglio di un messaggio preciso e calibrato che non può essere interpretato ma solo ricevuto.
I poeti visivi, seguendo l’auspicio di Benjamin, si appropriano delle tecniche, delle espressioni verbali e delle immagini dei nuovi media, utilizzandoli però con intenti antisistema. Con gli stessi strumenti si prefiggono di realizzare il rovesciamento di senso dei messaggi, il disvelamento delle mistificazioni delle classi dominanti e lo sberleffo nei confronti dell’ordine costituito e delle istituzioni tradizionali. È la stagione che sfocerà nel Maggio francese, durante il quale si vedrà infatti un fiorire di slogan immaginifici che rimandano immediatamente alla Poesia Visiva.
Nell’organizzare una mostra sulla Poesia Visiva si affrontano sostanzialmente due problemi: da una parte, l’ingente numero di gruppi ed artisti che hanno operato in questo ambito rende pressoché impossibile, se non nel caso di grandi mostre istituzionali, un allestimento che possa dirsi completo; d’altra parte ricerche affini alla Poesia Visiva sono state condotte anche da artisti che le storiografie ufficiali non includono in questo movimento. Si presta dunque il fianco sia alle critiche per aver escluso personalità che invece si sarebbero dovute includere sia, all’opposto, per aver incluso artisti apparentemente fuori dal canone. È opportuno quindi prendere ciascuna selezione per come viene presentata, senza soffermarsi troppo su chi c`è e chi è assente e valutando piuttosto il livello qualitativo delle opere proposte. In questo senso va apprezzato lo sforzo della Galleria Res Publica, che ha messo insieme un notevole gruppo di opere realizzate da un cospicuo numero di artisti fra i più importanti della Poesia Visiva per celebrare degnamente la nuova sede espositiva nel centro di Torino.
La domanda che poi aleggia sempre in sottofondo quando si intraprendono iniziative di questo genere è se ci sia davvero la necessità di riproporre questi artisti oggi, ad oltre cinquant’anni di distanza dalla nascita della Poesia Visiva. Il mercato dei poeti visivi è stato finora prevalentemente nazionale e con un livello di prezzi non elevato. Una delle ragioni principali di questo risiede proprio in uno degli aspetti che connotano imprescindibilmente le opere verbo-visuali: la lingua scritta. È indubbio che l’italiano abbia costituito una barriera linguistica per la comprensione e l’apprezzamento di questo movimento al di fuori dei confini italici. D’altra parte, se un tempo non si poteva pretendere che un collezionista straniero avesse facile disponibilità di un dizionario della lingua italiana, al giorno d’oggi è possibile tradurre istantaneamente ed automaticamente termini ed espressioni presenti nelle opere, così che una loro piena comprensione è diventata alla portata di tutti. Sembra dunque che oggi questo ostacolo non sussista più.
Se la tecnologia consente, potenzialmente, di aprire il mercato della Poesia Visiva ad un contesto più globale, quella stessa tecnologia rende al contempo molto attuale tale ricerca artistica. Mai come oggi, infatti, si è sottoposti ad un flusso continuo di parole ed immagini, durante tutto l’arco di una giornata. A differenza di quanto succedeva negli anni sessanta, quando le persone erano soggetti passivi della comunicazione dei media, ora però il flusso non è più monodirezionale, ma, attraverso varie forme, dai blog ai social network, multidirezionale. Il fatto che ogni individuo sia diventato produttore di immagini e testi ha avvicinato ciascuno al ruolo dei poeti visivi. Si deve quindi guardare a questi maestri come modelli proprio perché la loro attività di indagine del nuovo linguaggio che unisce parole ed immagini è diventata un’attività comune e quotidiana.
L’interesse internazionale crescente per diversi artisti contigui alla Poesia Visiva è poi sotto gli occhi di tutti; si considerino le presenze alle aste e fiere più importanti, accompagnate da una continua revisione al rialzo delle quotazioni, di artisti come Irma Blank (1934), Ketty La Rocca (1938 – 1976) o Emilio Isgrò. Inoltre, se si deve continuare a considerare documenta a Kassel come uno strumento di ricognizione e misurazione delle tendenze contemporanee, la discussa edizione del 2017 ha eretto un vero e proprio monumento alle parole contenute nei libri con il Partenone di Marta Minujin (1943) e ha mostrato il complesso progetto di Maria Eichhorn (1962) dedicato ai libri sottratti agli ebrei dai nazisti. Ma, soprattutto, ha avuto tra le presenze più interessanti e vitali la poetessa visiva ungherese di origine serba Katalin Ladik (1942) che ha occupato l’intera loggia della Neue Galerie con opere visuali e sonore di notevole impatto.
La congiuntura sembra dunque favorevole per riportare la Poesia Visiva alla considerazione che merita.
1 Walter Benjamin, Strada a senso unico, Einaudi, Torino, 2006, p. 22
2 Ibidem, p.23
3 Giosuè Allegrini, Lara vinca-Masini, Visual Poetry. L’avanguardia delle neoavanguardie, Skira, Milano, 2014, p. 109
Bellissima iniziativa anche per far conoscere Artisti importanti ma fuori dal giro mercantile che conta!!!! Mi chiedo come un Maestro universalmente riconosciuto come Giuseppe Chiari non trovi una sua degna collocazione in un mercato in mano ad artisti sconosciuti, e spinti al rialzo da mercanti senza scrupoli. La storia alla fine metterà tutti d’accordo!!!! Scusatemi…e grazie!!!
Gianluca Ramini
La ringraziamo delle sue preziose considerazioni che condividiamo appieno!